Data: 31/12/2009 - Anno: 15 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
Letture: 1335
AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)
L’occasione della presente rivisitazione di Giovanni Patari è stata provocata quest’estate -che significa immediatamente soggiorno nella mia “amorosa dimora” di Canale kilometrotredalle gradevoli conversazioni e piacevoli coinvolgimenti di tre amici. Nell’ordine di successione: Leonardo Mascaro che mi prestò per leggerlo Tirripitirri nella ristampa di qualche decennio fa presso l’editore catanzarese Mario Giuditta. Pino Martinelli, professore alla Facoltà di Medicina dell’Università di Bologna che col 1° novembre avrebbe cessato l’insegnamento, che ha avuto l’idea bellissima di ricavare da un magazzino inutilizzato un piccolo “salotto”, arredato splendidamente dalla moglie Fiorella, da destinare a “incontri” culturali per un ristretto -date le dimensioni del locale- numero di amici, intitolandolo “Dino Club” in memoria del carissimo fratello scomparso qualche anno fa. Si ripromette di intrattenere gli invitati, di volta in volta sempre diversi, affidandone l’incarico ad amici “esperti”, con argomenti di cultura, possibilmente calabrese, e di attività artigianali e persino con prove di arte culinaria. Ebbene: volle iniziare con un soggetto squisitamente locale invitando lo studioso di storia calabrese Marziale Mirarchi che è senza dubbio un’autorità in materia per la serietà che contraddistingue le sue ricerche, frutto di frequentazioni assidue e appassionate di Archivi e Biblioteche (la sua conta almeno cinquemila volumi). Marziale ha parlato della storia di Soverato impegnandosi, documenti alla mano, a elencare questioni e possibili soluzioni in maniera soddisfacente nulla concedendo al bla bla che circola nelle nostre contrade. Giulio De Loiro ha parlato invece del suo libro dedicato alla storia di Satriano, che tanto successo sta riscuotendo perché ha messo a servizio della ricerca storica la sua preparazione filologica -per alcuni decenni è stato la punta di diamante dell’insegnamento del latino e del greco. Terzo e ultimo chi scrive. Mi sono concesso un racconto sintetico e essenziale della cultura letteraria primonovecentesca a Catanzaro e dintorni, facendo nomi e cognomi di studiosi che hanno veramente illustrato la cultura del tempo, e non solo: Vincenzo Vivaldi, Giovanni Patari, Siro Chimenz, Giuseppe Casalinuovo, Umberto Bosco e altri, e soprattutto sottolineando l’importanza fondamentale di due istituzioni di grande richiamo e vivacità culturale come il Liceo Galluppi e la Biblioteca Comunale governata in modo insuperato dal mitico don Filippo de Nobili. Per poter intrattenere adeguatamente i nostri amici, mi sono documentato -ritornando alle origini- soprattutto riprendendo in mano Per la Calabria di Patari e “U Monacheddu”, la rivista che Giovanni Patari (Alfio Bruzio) ha fondato, diretto e scritta quasi tutta da lui tra il 1903 e il 1905. La riproduzione fotomeccanica procurata dall’editore catanzarese Ursini me l’ha regalata, insieme alla Storia della Calabria di Augusto Placanica e ai due volumi della Storia della Calabria nell’era moderna di Gustavo Valente, l’impagabile amico Marziale che non contento di tanta munificenza mi ha fatto dono della Divina Commedia tradotta in dialetto calabrese da Salvatore Scervini, pubblicata dall’editore Brenner (il mio primo editore), che sto centellinando nell’aurea misura di un canto al giorno, sottolineando soluzioni lessicali felicissime e termini di suono memorabile e altri del tutto sconosciuti alla mia insufficiente conoscenza del dialetto cosentino di un secolo e mezzo fa. Questa premessa era dovuta per sottolineare il compiacimento di qualche “occasione” di vivere felicemente la stagione e il luogo nel migliore dei modi possibili. Giovanni Patari (Catanzaro, 1866-1948) conosciuto anche con lo pseudonimo Alfio Bruzio, fu professore al “Galluppi” ed esercitò un eccellente magistero interpretando al meglio il ruolo di intellettuale di provincia colto e raffinato ed esponente prestigioso della vivacità culturale catanzarese nelle sue varie forme e generi: dalla poesia Tirripitirri (1926) al giornalismo “U Monacheddu”, alla saggistica letteraria nei volumi Sul Rinaldo del Tasso, Critiche e polemiche boccaccesche, Per la Calabria; alle prose di commosse descrizioni Terra di Calabria. Il mio primo impatto con Patari avvenne nell’adolescenza-prima giovinezza, grazie a Per la Calabria. Un libro certamente “trattenuto presso di me” dalla biblioteca di mio zio Ciccio, come si ricava evidentemente dalla dedica dell’autore “all’amico Francesco Aracri, simpatico ed elegante dicitore, per mio ricordo Giov. Patari (Alfio Bruzio), Catanzaro 7.4.934. XII”. Avendo sposato Norma Chiefari, nipote dell’Aracri, mio zio divenne nipote acquisito del gentiluomo di Petrizzi. L’ho ripreso in mano per la serata di fine agosto al “Club Dino” e mi sono riletto le trecento e passa pagine ricche di avvenimenti culturali, di rievocazioni storiche e letterarie, di ritratti di autori che sorprendono per l’acutezza di giudizio, lo scrupolo della ricostruzione, la passione dell’uomo di lettere che crede fermamente nella letteratura, l’attenzione che rivolge a quegli operai della parola che per tutta la vita hanno inseguito quella luce, grande o piccola che fosse, che dispensa l’opera letteraria a chi si dispone a “noctes vigilare serenas”. Temi e argomenti che tenevano desta la memoria d’una cultura regionale altrimenti condannata alla dimenticanza come per esempio Vinti e sommersi nella letteratura calabrese del secolo XIX; Politica e cultura in Calabria prima del 1860; Vita letteraria in Catanzaro nel secolo XIX; Il R. Liceo-Ginnasio Galluppi. E quindi i veri e propri saggi di critica letteraria: Domenico Mauro letterato e patriota; L’opera poetica di Domenico Milelli; le pagine dedicate al prestigioso traduttore di Platone Francesco Acri, al famoso poeta in latino Diego Vitrioli, allo scienziato-scrittore Antonino Anile. La mia adolescenza ebbe di che nutrirsi fuori dal “carcere” scolastico. E dopo più di mezzo secolo rileggere quelle pagine, colorate dai segni del tempo, mi ha provocato una forte emozione e la decisa “sprezzatura” per “le cose occorrenti” ai nostri tristi giorni segnati da volgarità e disprezzo per “le cose senza compenso” nella proclamazione e pratica della illegalità più spudorata fatta norma e legge. Naturalmente anche in Patari il mestiere del letterato indulge talvolta alla mitizzazione di valori e uomini che costituiscono il tessuto connettivo della società con l’immancabile riconoscimento di privilegio dell’èlite intellettuale (che non fu mai e non è di merda, come l’ha recentemente definita un minuscolo ministro berlusconiano), ma che è istituzione delegata a rappresentare la nobiltà del pensiero, che è altra cosa dall’insania e dall’anticultura della, ahinoi, classe governante. Tiripitirri è senza dubbio un’opera compiutamente rappresentativa dell’attività poetica di Patari: quasi trecento sonetti di gradevole freschezza che sono il ritratto fedele e commosso di personaggi tipici, di consuetudini stratificate, di opposizioni esistenziali ataviche, delle situazioni di vita cittadina affidate alle “novità de ‘u jornu”, della inevitabile comparazione tra “mundu vecchiu e mundu novu”, dell’eterna canzone dell’amore nelle sue infinite specie e modalità: soddisfatto, respinto, geloso, tradito, vendicato, calunniato, spiato, sofferto, osannato, degradato. Il tutto condito col sale della satira e dal lieve patetismo nel breve respiro dell’annotazione di costume e della circoscritta vita d’una società dopotutto irrimediabilmente provinciale. Se questa parte della produzione può definirsi “mezzo giovedì grasso”, non manca l’altro “mezzo venerdi santo”. Come si sa, è la celebre e perfida definizione che Manzoni diede del romanzo del Tommaseo Fede e bellezza. Infatti Patari compone anche un ciclo intitolato ’A Simana Santa e ’A Pigghjata . Occorre dichiarare che Patari mostra grande perizia nell’uso del sonetto, grazie al sapiente impiego delle strutture metriche e prosodiche, della rima che è naturalissima, e d’una lingua fortemente caratterizzante cadenze e formule tipicamente dialettali. Qualità che rendono la lettura piacevole anche a chi non ha dimestichezza col dialetto catanzarese. L’ineffabile Marziale Mirarchi mi ha dato anche un numero de “La Giovane Calabria” del 2 luglio 1926, XXIV, n° 24 -settimanale pubblicato a Catanzaro ogni giovedì- dove a p. 2, in fondo a sinistra, viene pubblicata una lettera del Prof. Cesareo, dell’Università di Palermo, a Patari per ringraziarlo dell’invio di Tirripitirri del 18.6.1926. Eccola: Caro ed illustre professore, avevo appena finito di leggere la prosa semplice e fresca del suo volume “Terra di Calabria”, quando mi è giunto, desiderato e graditissimo dono, “Tirripitirri”. Versi pieni di sapore, circonfusi d’aria e di luce, odorante di spicanardo, come la tela sincera della nostra massaia chiusa nei saldi cassettoni d’abete. C’è la potenza del dramma, come nella “Pigghjata” e c’è la ruvida grazia dell’idillio come nei “Palumbi”; c’è la mordente ironia di “A lanterna magica”, e c’è la passione contenuta e bella di “Vrasci ’e cora”. Nessun poeta regionale sa trattare oggi così varie corde con arte così penetrante come la sua. Anche la generosa Calabria ha oggi finalmente il suo poeta degnissimo di stare a paro coi migliori delle altre regioni di Italia. La ringrazio, caro amico, del dono prezioso, e le stringo la mano con ammirazione sincera. Suo aff. G. A. Cesareo. Il primo numero de “U Monacheddu” esce il 1° febbraio 1903 e l’ultimo il 3 settembre 1905, a. III, n. 35. Il sottotitolo recita: Giornale del popolo catanzarese. Si pubblica ogni domenica. Per tre anni la vita quotidiana di Catanzaro, dalla passeggiata serale alla degustazione del gelato a Moniaci, dalla riparazione di fogne e condutture dell’acqua, dalle liti di ballatoio agli spettacoli e ai divertimenti, dalla moda alle manifestazioni culturali, dalle attività sportive ai “salotti” della Catanzaro bene, è raccontata e illustrata nelle pagine de “U Monacheddu” che Patari scrive quasi completamente lui, con qualche collaborazione prestigiosa di intellettuali che svolgevano le loro professioni in città ma che adoperavano, nella circostanza, spiritosi nomes de plume, peraltro facilmente individuabili. L’editoriale del 1° numero è una poesia ’A prima predica di Patra Giovanni (= Patari) e il titolo indica chiaramente che perlopiù il giornale svolgerà un ruolo di critica costruttiva prendendo di petto tutte quelle cose che non vanno, senza indulgenza di sorta. A sfogliare le ampie pagine del settimanale, si ha l’impressione di assistere alle varie vicende quotidiane minime e massime, importanti e futili, felici e miserabili nello scorrere delle ore e ti sembra di assistere alle sequenze di un film che, nonostante sia passato più d’un secolo, ti appare come se fosse girato oggi con qualche lieve modificazione di dettaglio. La vita è ripetitiva e non è il caso di fare discorsi sui massimi sistemi. Mi piace, per finire, citare dal n° 26 del 2 agosto 1903 un pezzo dedicato a “A la marina ’e Suveratu”: “Paria na jettatura aguannu ccu si bagni: genti ’on da sunnu ’e nenta a la Marina” […] e su Suveratu daveru esta bellu?, n’d’haju ntisa parrara sempra bena. Sì, è na bella marina! U mara esta chiaru cchi poi cuntara puru i cuticchi cchi sunnu sutta, e poi nc’esta na passiata vicinu a praia chi esta propriu na bellezza. Nel n° 46 del 27-28 novembre 1904 c’è la notizia dell’ ufficio postale di Soverato rimesso a nuovo dal Signor Giovanni Calabretta “tutt’è in ordine, tutt’è elegante, tutt’è super chic. Le pitture in quell’edificio sono opera riuscita del nostro concittadino, decoratore Signor Vitaliano Bruno.” Nel n° 25 del 18 giugno 1905, p. 3, c’è l’annuncio pubblicitario che “a prezzi miti, per la prossima stagione balneare, a Soverato, nel Palazzo del farmacista Sangiuliano, stanze e quarti vasti eleganti, esposti a mezzogiorno, con incantevole veduta a mare, sul Corso, sulla campagna e sulla ferrovia. Rivolgersi esclusivamente al proprietario” Ho voluto citare questi tre luoghi per carità patria che spero non producano invidie e mormorazioni. |